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I “RISVOLTI” DELLA DOMENICA / “L’Àrbulu nostru”

Rubrica a cura di Salvatore Picone

L’appuntamento di questa domenica è dedicato al risvolto di un libro di poesie di Giuseppe Cinà – L’Àrbulu nostru. Il nostro albero – appena pubblicato dalla casa editrice “La vita felice”. Con la prefazione di Velio Abati (in copertina un pirandelliano ulivo saraceno davanti al tempio della Concordia, in uno scatto di Angelo Pitrone), in questa nuova raccolta Cinà fa venir fuori le sue radici e il profondo legame con la sua terra – che è anche la terra della classicità greca – con uno sguardo al passato, alle memorie e alle tradizioni di quegli uomini che, direbbe Verga, “hanno fatto la pappa”: contadini e braccianti della terra saggi e filosofi. Aleggia in tutto il libro un forte legame con la natura. Scritto in dialetto, il poeta non si allontana dalla lingua siciliana, nel solco della grande tradizione dei poeti dialettali.

Questo libro, in dialetto siciliano con traduzione a fronte, si pone nel solco di un ineludibile ricorso alle origini, un nòstos che prende corpo sulle tracce dell’ulivo, albero e principio fondativo come pochi altri della patria mediterranea.

Sul filo di una sommaria genealogia dell’Àrbulu nostru e della sua persistenza nel formarsi della civiltà intorno al Mare nostrum, le poesie si compongono in un mosaico di appunti, fatti e personaggi che richiamano alcune delle tante voci secondo cui l’ulivo ci ha parlato e ancora ci parla. A questa coralità di fondo fa riscontro un nucleo di poesie dal registro lirico, dove echeggia l’intenso rapporto che lega l’uomo e l’ulivo dall’alba dei tempi e il suo esaurirsi nel mondo globalizzato.
«Giuseppe Cinà, che sa ‘legger di greco e di latino’», scrive nella prefazione Velio Abati, «ha scoperto che lu jardinu e ancor più la cura di l’alivu fanno letteralmente, inscindibilmente tutt’uno con la materia viva del dialetto». Le dolcezze e le ruvidità dell’ulivo trovano infatti perfetto riscontro nel dialetto e nelle sue inesauribili scorte lessicali, semantiche ed espressioniste.

L’àrbulu nostru

Tu, abbasatu alivu 
di anticamenti nn’accuri,
ca nzemmula a la vigna e a lu frumentu 
nutricasti citati e campagni 
e fusti lignu di guerra e di paci 
sulu amanti di luci e aria, 
ma largu di ògghiu, focu e miricini.

Furtunatu, di na finestra di gioventù 
ti ntraguardai nna li jardina nfuti, 
onoratu di zappa e forbici
quannu l’alivi si cugghièvanu puru fràdici,
e in sulità, sutta un timpuni
risettu di marabuti 
e pasturi di addipiruti armenti.

Tannu davi travàgghiu a li pòviri e oru a li ricchi 
ora, turmintatu di pirimii africani 
e trofeu di ammiraturi stuffusi
sì robba di patruni luntani
ca ti mèttinu a la catina 
e ti nutrìcanu, scientimenti 
a vilenu e palori.

Ma resti sempri prontu pi la festa
quannu a la sacra cugghiuta 
li riti aguriusi lesti apparamu 
e lu nostru anticu matrimoniu
cumplimenti cu fistuni sbriusi
chi abbinìgnanu la vita di cu è ancora vivu
tra li sipurturi di li diserti campagni.

Il nostro albero

 

Tu, placido ulivo
da sempre ci curi,
ché insieme alla vigna e al frumento
hai nutrito città e campagne
e fosti legno di guerra e di pace
solo bisognoso di luce e aria,

ma prodigo di olio, fuoco e medicine.

Fortunato, da una finestra di gioventù
ti intravidi tra i folti giardini,
onorato di zappa e forbici
quando le olive si raccoglievano anche marce,
e in solitudine, sotto una rupe
rifugio di eremiti

e pastori di magri armenti.

Allora davi lavoro ai poveri e oro ai ricchi
ora, afflitto da piaghe africane
e trofeo di ammiratori svogliati
sei proprietà di padroni lontani
che ti mettono alla catena
e ti nutrono, sapendolo

di veleno e parole.

Ma resti sempre pronto alla festa
quando al sacro raccolto
le auguriose reti svelti apprestiamo
e al nostro antico matrimonio
porti in dono i tuoi allegri festoni
che addolciscono la vita di chi è ancora vivo
tra i sepolcri delle diserte campagne.
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