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La lingua degli zotici

di Giovanni Salvo

È una buona notizia quella del progetto che prevede nelle scuole siciliane l’istituzione di appositi corsi per studiare anche la lingua siciliana con la sua storia, con le sue tradizioni, con i suoi artisti. Una legge regionale c’è dal 2011, la numero 9 di quell’anno. Da allora si è fatto poco. Adesso ecco un tavolo tecnico presieduto dal professore Giovanni Ruffino, alla guida del Centro di studi filologici e linguistici siciliani. Presente anche lui, insieme con la docente dell’ateneo palermitano Marina Castiglione, il 14 febbraio, all’incontro di Palazzo dei Normanni, a Palermo. Occasione di un importante annuncio da parte dell’assessore all’Istruzione e formazione, Mimmo Turano, che ha parlato di uno stanziamento di 200 mila euro destinato ad incrociarsi con un altro progetto sostenuto a Bruxelles e Strasburgo dall’eurodeputato Ignazio Corrao. Particolarmente significativo che fra i protagonisti coinvolti nelle iniziative figurino due artisti tante volte vicini alla “Strada degli Scrittori”, il cantautore Lello Analfino e il cuntastorie Salvo Piparo, chiamati a raccontare versi ed opere di un dialetto che è una lingua. Tema sul quale abbiamo chiesto una riflessione a Giovanni Salvo, il poeta con radici a Racalmuto, nella città di Sciascia. Riflessione che siamo lieti di offrire ai lettori e ai viaggiatori della “Strada”, sullo stesso tema tante volte concentrati grazie alla “nostra” professoressa Castiglione.

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SCATTO D’AUTORE / Foto di Gianfranco Jannuzzo tratta dal volume “Gente mia” (Medinova, 2021)

 

Il particolare fermento che oggi si registra in difesa del dialetto siciliano fa sperare bene politici, studiosi, scrittori e artisti. La lingua “addutata di patri” avrebbe detto il grande poeta Ignazio Buttitta; la parlata nostrana “ca perdi na corda lu jornu” e che rischia dunque di scomparire.

Una richiesta di aiuto fin qui rimasta tappata, come sigillata in una vitrea poesia. Una missiva affidata al tempo, un foglio di carta arrotolato dentro il collo di una bottiglia lanciata tra i flutti del mare.
Un grido quello di Buttitta che, sfidando le correnti, ha galleggiato fino a raggiungere la terra ferma, i nostri giorni.

Un “message in a bottle”, anzi “dans la bouteille” poiché pare che la boccia si è spiaggiata proprio a Bruxelles, nel prestigioso litorale del Parlamento Europeo.

Occorre recuperare l’importante funzione comunicativa del dialetto siciliano che rischia di scomparire 

Raccolta dall’eurodeputato Ignazio Corrao ha messo in moto una serie di lodevoli iniziative per salvare il siciliano dai siciliani.

Secondo un recente sondaggio pare siano circa otto milioni le persone che conoscono il dialetto, e sono sempre meno quelli che lo utilizzano. Il fenomeno preoccupa molto i linguisti che si sono detti pronti a “lottare” pur di arginarne la sparizione.

Giovanni Salvo nella casa-museo “Sciascia” di Racalmuto, tappa della “Strada degli Scrittori”

 

L’idea è quella di frenare l’opinione che la parlata in siciliano sia prerogativa degli ignoranti , quando non degli zotici o dei mafiosi. Perché sta scomparendo il dialetto siciliano? Una risposta la si potrebbe trovare proprio nel ruolo che la scuola ha osservato negli anni, ossia avere obbligato i giovani studenti siciliani ad esprimersi solo in italiano corretto.

Costretti ad un terremoto coniugale attraverso una veloce trasposizione mentale dal siciliano all’italiano; salvo poi doversi ricordare di mantenere solo alcune forme verbali, vedi i condizionali. Chissà se così non fosse stato quanti se sarebbe avremmo scansato alla nostra umanità.

Averli indotti a formulare concetti attinenti agli argomenti trattati, ciò dunque attraverso una faticosa simultanea traduzione, è da considerare oggi una colpa a fin di bene?

Sarà stata dunque questa la causa che ha spinto molte famiglie ad evitare di parlare il dialetto in casa, ciò per non complicare la vita scolastica dei propri figli?

Chissà se, non offuscati da una lingua che pur sentendo propria ma ritenuta diversa, quanti studenti avrebbero potuto meglio dimostrare a scuola le proprie attitudini, la propria intelligenza.
Secondo la Professoressa Marina Castiglione, ordinario presso l’Università di Palermo, del quale gruppo di lavoro fa parte il racalmutese Prof. Angelo Campanella, “il dialetto sarebbe vittima di politiche generali che lo hanno de privato della sua importante funzione comunicativa”. L’obiettivo oggi è salvare il gergo siciliano dal quale abbiamo ricevuto i valori trasmessi dai nostri nonni.

La parlata della memoria, delle novelle, delle filastrocche, dei proverbi.
Il vernacolo di cui si sono serviti scrittori, poeti, cantastorie per raccontare della Sicilia, per preservarne le radici, per custodirne la memoria.

L’idioma che ha permesso per lungo tempo il trasferimento e la conservazione della nostra identità.

“Quando un popolo, un paese, una collettività, grande o piccola che sia, non perde la memoria vuol dire che non è disposta nemmeno a perdere la libertà”: sono queste le parole pronunciate dallo scrittore Leonardo Sciascia in difesa del ricordo, unica strada per preservare la libertà.

Lo scrittore di “Regalpetra” nonostante il suo forbito e preciso italiano, “la lingua del ragionare”, avvertì lo stesso il bisogno di spiegare la sua storia “minima” attraverso la parlata popolare.
Lo fece egregiamente illustrando i modi di dire siciliani del proprio paese, Racalmuto, con un libro unico dal titolo Occhio di capra. Spiegò così il significato di quelle parole che se tradotte dal siciliano avrebbero perduto la loro efficacia.

Leonardo Sciascia con un gruppo di amici nella sua Racalmuto, 1986 (Foto Pietro Tulumello)

 

Sciascia che pur non amando tanto il dialetto siciliano, in qualunque modo molto la Sicilia, se ne dovette servire lo stesso per spiegare l’inizio del suo percorso letterario, il suo “microcosmo”:
“Forse è a questa storia minima che io debbo l’attenzione che ho sempre avuto per la grande”. Considerava il dialetto siciliano limitativo, oltre che l’idioma dei complessi, in virtù del fatto che, leggendo l’explicit di Occhio di capra, la nobiltà siciliana ne aveva sentito il bisogno di addolcire il suono di certe parole in uso ritenendole stridule, non degne di rango.

Riprendiamoci noi stessi, difendiamo le nostre radici è il grido che arriva oggi dal Parlamento Europeo. Ben vengano dunque iniziative come “Il manifesto di Bruxelles”, che possa trovare altre sponde. Per dirla con Pasolini “lottiamo per tornare ad essere padroni della nostra realtà”.

Giovanni Salvo