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Vivere nella terra di un Giudice Martire

LA BEATIFICAZIONE DI ROSARIO LIVATINO Il commento del giornalista Felice Cavallaro, direttore della “Strada degli scrittori”, nel giorno dedicato al magistrato canicattinese ucciso dalla mafia nel 1990:  “La cultura, la fede, l’azione della magistratura si intrecciano per il riscatto civile nel nome di un giudice buono e irreprensibile

Il nome di Rosario Livatino, il giudice che la Chiesa celebra oggi 9 maggio beatificando la sua opera, è legato al territorio in cui ha lavorato e dove è caduto. Proprio la statale percorsa come ogni mattina, dalla sua casa di Canicattì al tribunale di Agrigento. Un tratto che insiste su quella che anche l’Anas ha denominato “Strada degli scrittori”. Con grandi cartelli per ricordare che fra i Templi e le miniere dell’entroterra sono nati o hanno trovato ispirazione autori come Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Camilleri, Antonio Russello, Leonardo Sciascia.

Ma a poco servirebbe richiamarne i nomi di questi geni dell’intelletto se dimenticassimo che, sotto i colpi della mafia, lungo quella stessa strada sono caduti, oltre Livatino, anche il giudice Saetta con un suo figlio e il maresciallo Guazzelli. Una tragedia intercettata da papa Wojtyla quando, sotto il tempio della Concordia, piantò una croce invocando il giudizio di Dio sui boss. Monito lanciato poco dopo l’incontro con gli affranti genitori del giudice Livatino.

La pirma pagina del “Corriere della sera” del 22 settembre 1990 con la notizia dell’agguato a Rosario Livatino. Tra le firme anche quella di Felice Cavallaro

La cultura, la fede, l’azione della magistratura si intrecciano quindi per il riscatto civile nel nome di un giudice buono e irreprensibile. Forse tutto questo non sarebbe bastato però nel caso Livatino a conseguire il successo delle indagini contro mafia e “Stidda” se, lungo quella “Strada”, non avesse assistito al brutale inseguimento del magistrato un agente di commercio in viaggio a bordo della sua auto. Pronto senza indugi ad avvertire le forze di polizia, a testimoniare contro assassini e mandanti. E, quindi, a cambiare con la sua famiglia identità e continente. E’ la storia del testimone di giustizia Pietro Nava, protagonista del primo miracolo di Livatino.

Gli assassini lo inseguivano lungo la scarpata e già Nava digitava il numero della polizia per lanciare l’allarme in una terra dove l’omertà porta(va) a voltarsi dall’altra parte.

Livatino diventa una luce che indica la giusta traiettoria a chi vive nella sua terra, non solo al testimone che era arrivato da Milano, poi costretto con la famiglia ad emigrare in località segreta. Come dire che il miracolo sarà compiuto per intero quando nella terra di Livatino nasceranno tanti altri Nava siciliani, decisi a non ruotare il capo per non vedere, decisi a ribellarsi al sopruso e alle angherie di una genia di malfattori di cui liberarsi.

Ma la riflessione non sarebbe completa se l’esempio di Livatino non fosse fatto proprio e praticato dai suoi colleghi ai quali così si rivolgeva: “L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza… ma anche nella sua moralità”. Parole echeggiate all’interno di Palazzo dei Marescialli, a Roma, dove presente il capo dello Stato Sergio Mattarella la figura di Livatino, alla vigilia della cerimonia di Agrigento, è stata commemorata dai giudici togati e non togati del Consiglio superiore della magistratura. Cioè dai protagonisti di quell’organo di autogoverno roso da polemiche interne, manovre occulte, accuse infamanti, addirittura come fosse il cuore di un sistema regolato da correnti politiche, consorterie lobbistiche e corvi lanciati l’uno contro l’altro. Un’immagine devastante che riporta ad una constatazione di Livatino, da iscrivere come epigrafe per un diverso futuro della categoria: “L’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità”. Ma è un miracolo che i suoi colleghi non possono chiedere al nuovo Santo.

Felice Cavallaro