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Il glaucoma di Andrea. E quel sangue che non vide

CAMILLERI, UN ANNO DOPO Il ricordo di Felice Cavallaro, direttore della “Strada degli scrittori”

Molti amici della “Strada degli scrittori” conoscono una video-intervista realizzata nell’autunno del 2014 a casa di Andrea Camilleri. Quella in cui il gran narratore di tante storie spiega che non può essere considerata una contaminazione utilizzare i nomi di Sciascia, Pirandello, il suo e quelli degli altri autori per accendere attenzione sui territori in cui sono nati o hanno trovato ispirazione. E’ l’intervista in cui si augura che sia valorizzata infatti la sua “vera Vigata”. Un modo per riflettere su chi, spinto dalla lettura del Commissario Montalbano, può pensare a un viaggio in Sicilia. Ma incoraggiandolo a scoprire non solo il barocco di Scicli, Modica e Ragusa Ibla, cioè non solo i luoghi scelti dalla regia televisiva della fortunata serie: “Anche verso la mia Porto Empedocle, appunto la ‘vera Vigata’”.

Cominciò così la nostra conversazione quella mattina, mentre due giovani registi del Centro sperimentale di cinematografia, Ruben Monterosso e Federico Savonitto, montavano luci, microfoni, macchine da ripresa trasformando il salone di casa Camilleri in un set. E noi ad attendere nel suo studio, lì a due passi, anzi otto, appena un piccolo corridoio, solo un disimpegno che percorremmo insieme per raggiungere i cineasti del centro allora diretto da Roberto Andò. Otto lunghi passi che diventarono il doppio, forse di più. Con il suo braccio avvinghiato al mio, come fosse una stampella. E due parole che mi spezzarono il cuore: “Nun ci viu chiù, don Felice”.

Un vezzo quel “don” amichevolmente riservato a mio padre finché fu in vita, ripetuto con simpatia reciproca evocando anni lontani di due sconosciuti che lavoravano nella stessa azienda, la Rai. E io ogni volta a dire “ma che don e don”. Non quella volta, allarmato dalla confidenza sulla vista. Sapevo del glaucoma incalzante, ma non di un tale aggravamento. E non me ne ero nemmeno accorto arrivando nel suo spartano studio zeppo di libri, di pupi, di richiami alla sua Sicilia. Accolto dalla fidata Valentina che frattanto andava via. E così, dopo i primi minuti di convenevoli, spostandoci verso la poltrona al centro di grandi librerie, scoprivo una realtà che dopo qualche tempo avrebbe fatto capire a tutti il ruolo fondamentale di Valentina Alferj diventata davvero gli occhi e le dita del Maestro per scrivere e correggere.

“Da solo non lo posso più fare. L’ho capito andando in Spagna per una visita. Erano pronti ad operarmi. Ma ho preferito Prato. Il risultato è un recupero lento, dicono. Ma la verità è che io non vedo. Va sempre peggio. Mi avvio a una cecità completa. Non posso leggere, ci provo a scrivere, con difficoltà, piazzato davanti a questo grande computer, i caratteri ingigantiti…”.
E i libri? Non leggi? “Non posso. Me li legge Valentina. Forse mi installano un sistema per proiettare la pagina di un libro o di un giornale, forse tornerò a leggere. Ma adesso no. Manco la Tv guardo. Sforzo gli occhi e lacrimano. Mi danno delle gocce con cui va meglio, a volte. Che gocce!”.
Sempre caustico nei racconti, riuscì a strapparmi un sorriso descrivendo quelle gocce: “Le prendevo in campagna, in Toscana, l’estate scorsa. Ma alle 5 del mattino ero già sveglio, sbarbato, perfetto, eccitato. Come fossi stato dopato. E in effetti parlando con i medici mi hanno poi detto che a qualcuno quelle gocce fanno un certo effetto, l’effetto di una droga. Minchia, a me pure”.

Rilanciai dicendo che con la “Strada” (“e tante gocce”) avremmo potuto provare ad andare insieme l’anno successivo per una “serata Camilleri” all’Expo di Milano di cui tanto si parlava. La serata poi si fece e lui intervenne per telefono, come capì che sarebbe accaduto immaginando le difficoltà: ”Milano significa spostarsi a fatica, prendere il treno, mentre mi muovo a stento. Si, qualche volta faccio ancora il giro del palazzo. O vado alla presentazione di un libro. Mi ci portano. Ma ogni volta mi sento spaesato, impedito, incerto. Vedo male chi sta di fronte a me. Poi capita che sento una voce, qualcuno che mi parla, ma anche se è accanto a me non lo vedo perché il campo visivo è ristretto, mi mancano gli angoli. E se uno si sposta, sparisce di botto. Con me smarrito”. Aveva capito pochi giorni prima del nostro incontro che gli occhi davvero non lo aiutavano più. E me lo raccontò alla fine dell’intervista, quando Monterosso e Savonitto smontavano le apparecchiature e noi due procedevamo a passetti lenti per ritornare allo studio, passando davanti alla porta del soggiorno indicata con un racconto drammatico che per protagonista aveva avuto la signora Rosetta, la moglie, la compagna di sempre.

“L’altro giorno sento un rumore, ma non ci faccio caso. Realizzo dopo che può essere caduta una sedia, o qualcosa di simile. Ma squilla il telefono e non ci faccio più caso. Squilla e chiamo: Rosetta, il telefono. Ma Rosetta non risponde. E io mi alzo per rispondere, per andare nel soggiorno. Cammino guardingo perché non vedo, toccando tavolo, mobili, porta. Nel corridoio, con la coda dell’occhio, intravedo, oltre una porta spalancata, una sedia a terra. Poi realizzo e sento Rosetta. E’ lei che sta a terra. Caduta insieme con la sedia. Che ti sei fatta, Rosetta? Niente, niente. Ti fa male? Un poco, dice lei. Ma io non posso aiutarla a sollevarla. Lei da sola non ce la fa. Non ti preoccupare Rosetta, chiamo Andreina. E mia figlia che abita vicino arriva subito. Ma solo quando arriva, dal suo grido che mi sconvolge, capisco cosa è successo. Rosetta è in un lago di sangue. E io non vedevo, non ho visto il sangue. Terribile. La telefonata al 118, il ricovero, i punti, otto punti in testa, i medici che parlano di miracolo perché poteva finire veramente male e tre settimane di riposo per Rosetta. Passerà. Ma io quel sangue non l’ho visto”.

L’ironia era volata via, una preoccupazione incalzava nello studio di tre metri per quattro, un balcone di fronte alla porta d’ingresso, a destra la scrivania con il computer, sulla parete di sinistra lo scenario a grandi quadri di un cantastorie, con due pupi siciliani poggiati per terra.

“Sono pezzi e colori della nostra Sicilia. Quelli continuo ad averli impressi come immagini indelebili. Il resto mi fa pensare alla cecità di Borges…”. Parlava del poeta argentino che era stato premiato a Palermo con la Rosa d’oro della casa editrice Novecento nel 1984, quando si diceva che, già cieco, scrutasse il mondo con il suo intelletto. Come il grande Andrea che, capii allora, vedeva molto meglio e molto di più di quel che tanti con occhi buoni non riescono a distinguere e capire.

Felice Cavallaro